In questa sezione riportiamo le testimonianze e i ricordi su Jia Ruskaja e sull’attività della FAND.
Come vedeva Saffo
«Le fanciulle cretesi, in cadenza,
coi snelli piedi danzavano
leggermente, sul tenero fiore
all’erba movendo».
Così: giovani corpi umani, femminili,
di forme perfette, snelli ed agili, che creano,
nei gesti e col ritmico moto, meravigliose
sequenze di accordi suggestivi di canto e
di melodia. Allora la danza può veramente
attingere ai vertici della musica.
ILDEBRANDO PIZZETTI
A Jia Ruskaja
Francobaldo Chiocci
Chi sia Jia Ruskaja, la fondatrice dell’Accademia Nazionale di Danza che nel 1948 “laurea” ufficialmente i docenti di quasi tutte le scuole italiane, oltre che molti artisti avviati alla gloria dei palcoscenici, ancora oggi, a 50 anni dalla morte, resta arduo spiegarlo. Molta fama di questa enigmatica, affascinante ma controversa suscitatrice di ammirazione e ostilità, resta avvolta in un aggrovigliato mistero artistico ed esistenziale, che però è doveroso di staccare e scrutare. Se non altro per riscoperta e riconoscenza verso il personaggio più complesso, poliedrico, creativo e innovatore emerso nel secolo scorso dal mondo italiano della danza.
L’autore della sua biografia, fatta di aneddoti e anche gossip antiquari, è un giornalista che le fu amico, raccolse le sue confidenze e le fu vicino, pur essendo pressoché digiuno di cultura coreutica, negli anni più benemeriti (quelli da educatrice) della sua attività accademica, quando Ruskaja non era una maliarda dei teatri e dei salotti, una coreografa di talento, una organizzatrice di spettacoli memorabili, una collezionista di successi (festival internazionali, persino medaglie alle Olimpiadi di Berlino), una teorica (inventò la scrittura della danza), ma una esteta pedagoga che concepiva la danza in maniera totale e totalizzante, cioè come n modo di essere. E difatti così intitolò un suo da tempo introvabile libro del 1928. Una severa maestra di cultura e disciplina di vita, un’educatrice ostinata a istruire allieve colte: la moralizzatrice – diciamolo pure – di un’arte che in Italia era appaltata dai teatri lirici e, da decaduta, rischiava di diventare malfamata, quasi a sospettare che ogni ballerina si arrangiasse nei camerini prima che sul palco.
Sembra cie sia nata (mai confessò l’età) nel 1902 a Kerc, in Crimea, col nome di Evgenija Fedorovna Borisenko, da una aristocratica famiglia d’origine tartara e nemica degli ottomani, e perciò educata a disdegnare i turchi dirimpettai e a immergersi nella cultura russa, quella del balletto in particolare, che, sin dai tempi di Caterina la Grande, aveva le sue più rinomate scuole femminili a Mosca e a Odessa. Da qui il vezzo e il vanto patriottico di ribattezzarsi Jia Ruskaja, che significa appunto “Io la russa”, una volta che il suo spirito ribelle e l’avvento del bolscevismo l’avevano spinta a rifugiarsi su una cannoniera britannica, esule politica e sposa novella di un ufficiale inglese che la conquistata e impalmata a Costantinopoli con la promessa di condurla in Europa a studiare ingegneria, professione a quei tempi negata alle donne. Comincia così nei primi anni 20, a Ginevra, dove il marito la costringe a studiare medicina anziché ingegneria ma la lascia viaggiare con amici autorevoli e ammiratori ricconi, l’avventura mitteleuropea di questa intraprendente maliarda Ucraina, sulla quale si favoleggiano subito leggende seduttrici, successi e amori. È bellissima ma austera, dicono che sia frigida, ma è eterea e monumentale, esotica ed esoterica. Un poeta innamorato la definisce “alunna di Zarathustra”. Volteggiare disinvolta tra corteggiamenti e devozioni. In Italia arriva al seguito di un ricco antiquario russo-armeno e soggiorna a Fiesole nella villa del grande pittore del Bòklin. Sinché, a scorno del marito che la supplica invano di tornare, il colpo di fulmine italiano la folgora, a Roma, con la conoscenza degli scapestrati avanguardisti che, al seguito di Marinetti, dicono di voler uccidere il chiaro di luna, predicano lo svecchiamento, si dichiarano futuristi. Ed ecco la cotta, forse l’unica anche sentimentale, per il suo pigmalione Anton Giulio Bragaglia. Fu amore corrisposto? Si sa soltanto che, per merito suo, la Ruskaja furoreggia con i suoi “petali di rosa ai piedi” (definizione di un inaspettato Trilussa) tanto nel marinettiano Cabaret Epilettico, quanto nel Teatro degli Indipendenti che Bragaglia, secondo i pettegolezzi, ha inventato per lei. E dire che l’ingaggio di quella vedette del futurismo danzante era stato quantomeno screanzato: “Una signora russa a Roma? Basta che si muova ed è già una danzatrice …”. Le malelingue dicono che pure la levigata e affabulatrice scrittura delle teorie globali della “Danza come un modo di essere” contenute nel suo libro omonimo non sia della Ruskaja, che non ha mai imparato l’italiano, ma del prediletto dei suoi amorosi testi estimatori.
Un altro sodalizio decisivo anche un altro amore è quello con il grande grecista Ettore Romagnoli, che fa di una pupilla futurista una vestale del mondo antico, cosicché la Ruskaja potrà coniugare, in chiave mediterranea, avanguardia e tradizione. E quando al Teatro Greco di Siracusa è coreografa e interprete di “Ifigenia in Aulide” e “Agamennone” scende da Roma ad applaudirla anche il re.
Danzatrice per istinto, coreografa per passione, teorica per fantasia, la Ruskaja è stata soprattutto direttrice di scuole. Anche in questo settore quasi per caso. La invitarono a curare per il Regio di Torino la coreografia della “Danza delle ore” di Ponchielli e quando le presentarono le 24 ragazze del corpo di ballo, tutte “troppo vecchie, troppo grasse, troppo incolte”, ottenne di poter cercare altrove, ma invano. “Fu allora – racconta Ruskaja – che mi dissi: si in Italia non ci sono danzatrici, bisogna crearle. E affittai a Milano un salone del Teatro dal Verme per la mia prima accademia privata”.
Intanto, a Milano, la sua dimora molto chic era diventata un salotto letterario, altro che salotto Bellonci o casa Angiolillo. Era un parterre di tutte le muse. Dal pomeriggio a sera attendevano ore per vederla comparire i più bei nomi della cultura e del giornalismo. Uno di costoro, Aldo Borelli, direttore del «Corriere della Sera», divenne il suo secondo marito. E subito spettegolarono che le assunzioni e le carriere in Via Solferino non le decideva più lui. Due grandi firme, Marco Ramperti ed Emidio Radius, si sfidarono a duello per lei solo perché il secondo era stato preferito al primo per una nuova prefazione al suo libro in ristampa.
Con i suoi programmi e la sua filosofia, questa gran salottiera introdusse una ventata di rinnovamento in tutto il mondo della danza, a cominciare dalla Scala, che la ebbe direttrice per due anni, sinché non riuscì a realizzare una scuola autonoma sotto l’egida statale. Allo scoppio della guerra, addirittura dirigeva due scuole, una settimana a Milana, sulla collinetta Monte Tordo, e una a Roma, in Via Cisalpino, come sezione distaccata di danza della Regia Accademia di Arte Drammatica diretta da Silvio D’Amico.
Quando la scuola di Milano fu sventrata dalle bombe si trasferì definitivamente a Roma e facendo poi ricorso a tutti i suoi espedienti mondani e diplomatici di gran calcolatrice, ottenne nel 1948 una legge che istituiva in Accademia Nazionale di Danza la preesistente Regia Scuola di Danza. Nel 1954 riuscì ad ottenere una superba sede sull’Aventino, al Castello dei Cesare, sopra il Circo Massimo, in uno degli scenari più solenni di Roma. Il merito del trasloco, oltre che al prestigio e alla grinta della Ruskaja, andò all’ennesimo dei suoi ammiratori: l’allora Ministro della Pubblica Istruzione e futuro presidente del Parlamento Europeo Gaetano Martino, siciliano colto e galante.
In un luminoso pomeriggio d’autunno romano, durante una passeggiata sull’Appia Antica alla ricerca della tomba di una ballerina caditana dell’era augustea, la matriarca della danza italiana confidò, inaspettatamente umile e tacitiana, che avrebbe voluto per sé la dedica funerario a quella lontana progenitrice ignota: «Saltavit et placuit», danzò e piacque.